“The Goblin”, una nuova sonda per la caccia a Planet X

La recente scoperta dell’oggetto trans-nettuniano 2015 TG387 (soprannominato “The Goblin” dagli scopritori, poiché la sua designazione provvisoria contiene TG e l’oggetto è stato osservato per la prima volta vicino a Halloween), ripropone con forza il problema di quale sia la reale struttura remota del Sistema Solare e se esista veramente Planet X, un ipotetico corpo planetario di una decina di masse terrestri in orbita attorno al Sole su un’orbita di circa 700 UA di raggio. Vediamo di capire qualcosa di questa intricata vicenda esaminando la struttura esterna nota del Sistema Solare per poi passare a parlare del contributo di “The Goblin” nell’economia di Planet X.

planet-x-concept-art_carnegiedtm-2
Figura 1 – Una rappresentazione artistica dell’ipotetico Planet X, anche noto come Planet 9 (Roberto Molar Candanosa and Scott Sheppard, Carnegie Institution for Science).

Un primo colpo d’occhio sui corpi minori

Nel Sistema Solare i corpi minori conosciuti si collocano principalmente in due zone: la Fascia Principale compresa fra le orbite di Marte e Giove, fra le 1,8 e le 4 UA dal Sole (1 UA = 149,59787 milioni di km è la distanza media Terra-Sole), dove si trovano prevalentemente gli asteroidi formati da silicati e metalli, e la Fascia di Edgeworth-Kuiper, collocata oltre l’orbita di Nettuno fra le 30 e le 55 UA, dove si trovano corpi ghiacciati anche di discrete dimensioni. Il pianeta nano Plutone, con i suoi 2.300 km di diametro, è uno dei corpi più grandi di questa fascia esterna.

Ancora più distante, fra le 50.000 e le 100.000 UA, si trova la Nube di Oort una enorme riserva di nuclei cometari, a simmetria sferica, che circonda l’intero Sistema Solare. Come vedremo, le comete della Nube di Oort non sono native di questa remota regione ai confini dello spazio interstellare, ma sono originarie della zona dei giganti gassosi. Ci sono anche popolazioni di corpi minori intermedie, come i Centauri, oggetti della Fascia di Kuiper che hanno subito delle perturbazioni gravitazionali tali che sono migrati nella zona dei giganti gassosi, oppure i Near Earth Object (NEO), per lo più asteroidi della Fascia Principale che, in seguito a interazioni gravitazionali con Giove, sono stati proiettati verso il Sistema Solare interno e con la loro orbita possono transitare a meno di 0,3 UA da quella della Terra. Un’altra consistente popolazione di corpi minori condivide l’orbita con Giove, il maggiore dei giganti gassosi, collocandosi a circa 60° eliocentrici prima e dopo il pianeta: sono gli asteroidi Troiani.

asteroid-belt
Figura 2 – La distribuzione degli asteroidi all’interno dell’orbita di Giove. In marrone sono indicati gli asteroidi Troiani di Giove, in bianco gli asteroidi della Fascia Principale. Ancora più all’interno sono indicati alcuni NEO (NASA).

La Fascia di Edgeworth-Kuiper

Negli anni ’50 del secolo scorso, due astronomi, l’inglese Kenneth Edgeworth (1880-1972) e l’olandese Gerard Kuiper (1905-1973), postularono, indipendentemente l’uno dall’altro, l’esistenza di un disco formato da corpi generati dall’accrezione di planetesimi ghiacciati oltre l’orbita di Nettuno. L’esistenza di questa fascia asteroidale esterna rimase in ambito teorico fino alla scoperta del primo oggetto, l’asteroide (15760) 1992 QB1: il primo trans-nettuniano a essere scoperto dopo Plutone nel 1930. L’asteroide è stato scoperto il 30 agosto 1992 da David C. Jewitt e Jane X. Luu dall’Osservatorio del Mauna Kea, Hawaii.
Ora sappiamo che la fascia di Edgeworth-Kuiper oltre l’orbita di Nettuno esiste, ed è posta tra le 35 e le 55 UA dal Sole. Attualmente, gli oggetti noti della Fascia di Kuiper (noti come Kuiper Belt Object o KBO) sono poco più di 2100. Considerato che la massa complessiva stimata di tutta la fascia è 0,1 volte quella terrestre, con così poca materia a disposizione i planetesimi non avrebbero mai potuto accrescersi, anche con tempi a disposizione molto lunghi, per via del grande spazio disponibile. Per questo motivo è ragionevole ipotizzare che quella di oggi sia solo il residuo di una Fascia di Kuiper Primordiale, ben più massiccia di quella odierna.

Tipi di KBO

Le orbite dei KBO sono raggruppate empiricamente in diverse classi. La prima è quella dei “KBO classici”, caratterizzati da una bassa eccentricità orbitale e semiassi fra 42 e 48 UA. Altra classe è quella dei “KBO risonanti“, cioè in risonanza orbitale 1:1, 3:2 o 2:1 con Nettuno in modo tale che le distanze da questo pianeta non scendono mai sotto a valori troppo stretti e i KBO possono muoversi su orbite stabili. La presenza di questa classe di KBO è una prova dell’avvenuta migrazione planetaria nelle prime fasi di vita del Sistema Solare: se non fosse avvenuta, gli oggetti in risonanza di “sicurezza” con Nettuno non esisterebbero! L’oggetto più famoso di questa classe è proprio Plutone, che si trova in risonanza 3:2 con Nettuno (ogni due orbite di Plutone, Nettuno ne compie 3) e, pur intersecando l’orbita di quest’ultimo, non gli si avvicina mai sotto le 17 UA. Le ultime due classi sono quella dei “KBO scatterati“, oggetti a elevata inclinazione ed eccentricità, con perieli fra le 30 e le 40 UA e quella dei “KBO distaccati” simili ai precedenti ma con perieli oltre le 40 UA. Quest’ultima classe è molto importante perché non può essere nata per effetto delle perturbazioni gravitazionali di Nettuno, quindi è possibile che la loro origine debba essere ricondotta a un pianeta ancora sconosciuto.

Kuiper-Belt
Figura 3 – Rappresentazione della Fascia di Edgeworth-Kuiper con indicati i pianeti nani ivi presenti: Plutone, Eris, Makemake e Haumea. In giallo è indicata la traiettoria della sonda New Horizons della NASA che ha esplorato Plutone nel luglio 2015 (The Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory LLC).

La nube di Oort

Il Sistema Solare non termina con la Fascia di Edgeworth-Kuiper ma si estende ben oltre. Nel 1950 l’astronomo olandese Jan Oort (1900-1992), considerando il semiasse maggiore di 19 comete a lungo periodo ben osservate, mostrò che l’energia di legame di questi corpi (che è proporzionale all’inverso del semiasse maggiore a dell’orbita), si riduceva a zero per lo più fra le 50.000 e le 100.000 UA dal Sole. Scoprì così quello che oggi è noto come il Picco di Oort, ossia un accumulo di comete con energia totale (cinetica + potenziale), prossima allo zero. Per valori di energia negativi i corpi sono vincolati al Sole, per energia positiva sono liberi di allontanarsi nello spazio, come nel caso del primo corpo interstellare, ‘Oumuamua.

Vista l’esistenza di questo picco nella distribuzione dell’energia di legame, Oort suppose che queste comete stessero entrando per la prima volta nel Sistema Solare e che doveva esistere una grande riserva di comete fra le 10.000 e le 100.000 UA dal Sole: la Nube di Oort. La popolazione di corpi stimata da Oort era dell’ordine dei 200 miliardi di comete. Le ultime valutazioni hanno portato il numero di comete che compongono la nube a un valore compreso tra 1.000 e 10.000 miliardi di oggetti, per una massa complessiva compresa fra 0,1 e 1 volta la massa della Terra.
Poiché è assai improbabile che una cometa si possa formare direttamente a 100.000 UA dal Sole, dove la densità della materia è trascurabile anche per un disco protoplanetario massiccio, è logico supporre che le comete nella Nube di Oort siano nate insieme con i pianeti. Evidentemente si sono formate oltre la linea della neve, e solo dopo sono state espulse a grandi distanze dal Sole. Per la formazione della Nube di Oort è quindi necessario un processo a due o più step. Per prima cosa si deve essere verificato uno scattering gravitazionale, da parte dei giganti gassosi (Giove, Saturno, Urano e Nettuno), sui planetesimi ghiacciati presenti nella stessa regione dei pianeti. Questo processo si è verificato durante la fase di migrazione planetaria. I planetesimi espulsi con una velocità inferiore a quella di fuga sono ricaduti verso il disco protoplanetario per andare in seguito a cadere sui pianeti o per essere di nuovo scatterati. I planetesimi espulsi con una velocità superiore a quella di fuga si sono persi nello spazio interstellare, infine quelli espulsi con velocità appena inferiore a quella di fuga possono aver subito una circolarizzazione dell’orbita, ad esempio a seguito di perturbazioni gravitazionali di stelle vicine (questo meccanismo impedisce la ricaduta verso il disco protoplanetario), formando così la Nube di Oort. Un pianeta massiccio come Giove è più efficiente per l’espulsione definitiva dei planetesimi nello spazio interstellare, mentre pianeti più piccoli come Urano e Nettuno possono avere contribuito maggiormente a popolare la Nube di Oort. Nel complesso, si stima un’efficienza di popolamento della Nube di Oort che oscilla fra l’1% e il 10% della popolazione di planetesimi originaria presente nel disco protoplanetario. In definitiva la Nube di Oort è una conseguenza dell’interazione gravitazionale dei pianeti giganti con i planetesimi ghiacciati e di questi ultimi con stelle di passaggio.

Oort_Cloud
Figura 4 – Una rappresentazione della Nube di Oort in relazione al Sistema Solare (NASA).

In caduta dalla nube di Oort

Chiaramente, se vediamo comete che provengono dalla Nube di Oort, i corpi che vi si trovano devono poter ritornare verso il Sistema Solare. Le ricerche compiute in tal senso hanno permesso di stabilire che l’ambiente galattico in cui si muove il Sole può immettere comete verso il Sistema Solare attraverso tre meccanismi:

1. Stelle di passaggio vicino al Sole
2. Effetto di nubi molecolari giganti
3. Maree galattiche

Le perturbazioni con le cause 1 e 3 sono ben comprese, mentre per la 2 i modelli sono ancora carenti. Vediamo più in dettaglio il punto 1 perché molto istruttivo. Supponiamo di avere due comete della Nube di Oort sulla loro orbita ellittica attorno al Sole entrambe all’afelio nella stessa regione di spazio ma una in allontanamento e una in avvicinamento al Sole. Supponiamo che ci sia una stella di passaggio che le influenzi gravitazionalmente. La cometa che si sta allontanando dal Sole sarà attratta dalla stella di passaggio aumentando ulteriormente la sua velocità, quindi può acquistare abbastanza energia cinetica da allontanarsi definitivamente dal Sole. Anche la cometa che si sta avvicinando al Sole sarà attratta dalla stella ma in questo caso la velocità diminuirà perché la forza di gravità agisce in senso contrario alla direzione del moto. In questo secondo caso è favorita la “caduta” verso il Sole e il Sistema Solare interno. Questa cometa lascerà la Nube di Oort per dirigersi verso i pianeti che ne perturberanno ulteriormente l’orbita fino a ridurla a una cometa periodica.

Con questo meccanismo di “perturbazione stellare”, oppure con la presenza di un pianeta ancora sconosciuto, si può spiegare la presenza dei corpi Inner Oort Cloud (chiamati anche TNO remoti o estremi), ossia oggetti che hanno il perielio oltre la Fascia di Kuiper ma con un semiasse maggiore inferiore ad alcune centinaia di UA. Gli IOC sono al di fuori dell’influenza gravitazionale dei pianeti conosciuti e sono debolmente legati al Sole, quindi sono una perfetta “sonda gravitazionale” per cercare di analizzare la struttura del Sistema Solare oltre la Fascia di Kuiper. Di questi oggetti ne sono noti 3: Sedna (scoperto il 14 novembre 2003 ), 2012 VP113 (scoperto il 5 novembre 2012 ) e il nostro 2015 TG387 di cui parleremo fra poco.

Una prima evidenza per Planet X

Il 20 gennaio 2016 venne pubblicato sul “The Astronomical Journal” un famoso articolo dal titolo “Evidence for a distant giant planet in the solar system” a firma di Batygin & Brown (Caltech). Si tratta di un articolo teorico che ha come punto di partenza l’orientamento orbitale dei corpi noti più distanti appartenenti alla Fascia di Kuiper. Se si considerano i corpi transnettuniani remoti, ossia quelli con semiasse maggiore dell’orbita più grande di 250 UA (corpi che non sono perturbati gravitazionalmente da Nettuno), si trovano 7 oggetti (fra cui Sedna e 2012 VP113) con orbite ellittiche grosso modo tutte orientate e inclinate nello stesso modo. Nell’articolo gli autori mostrano che un simile allineamento casuale è molto improbabile e che deve esistere un qualche motivo fisico per la sue esistenza.
Eseguendo delle simulazioni numeriche al computer è stato trovato che una possibile spiegazione (ma non l’unica) per questo allineamento delle orbite potrebbe essere la presenza di un pianeta gigante con una massa di circa 10 volte quella della Terra, posto su un’orbita eccentrica (e = 0,6) avente un raggio medio di circa 700 UA (che verrebbe percorsa in circa 18.000 anni). Va subito osservato che il valore di 10 masse terrestri per la massa di questo ipotetico pianeta lo fa ricadere nella classe dei pianeti chiamati genericamente “Super-Terre”. Nell’articolo del 2016 il pianeta viene chiamato Planet 9, ma viene indicato anche come Planet X.
Chiaramente, da quando è stato pubblicato l’articolo di Batygin e Brown, è iniziata la parte più difficile: trovare il pianeta per dimostrare che il cluster di orbite allineate e le simulazioni numeriche sono state interpretate nel modo corretto.

Planet-nine
Figura 5 – Rappresentazione del cluster di orbite che potrebbero indicare la presenza di una super-terra di circa 10 masse terrestri in orbita a circa 700 UA dal Sole (NASA).

La scoperta di “The Goblin”

Il TNO remoto 2015 TC387 è stato scoperto il 13 ottobre 2015 durante una survey alla ricerca di nuovi oggetti che si trovino oltre il limite esterno della Fascia di Kuiper. Per la scoperta è stato usato il telescopio Subaru (Mauna Kea, Hawaii) abbinato alla HuperSuprime Camera (HSC). Al momento della scoperta questo TNO era di magnitudine +24 (ben 9 milioni di volte più debole delle stelle appena visibili ad occhio nudo!) e si trovava a circa 80 UA dalla Terra, ossia a circa 15 UA dal suo perielio. Assumendo un albedo di Bond di 0,15 (ossia che il corpo celeste rifletta nello spazio il 15% della radiazione solare), ci si aspetta un diametro di circa 300 km. Si tratta di un oggetto molto più piccolo di Plutone o anche di Sedna.

Il semiasse maggiore dell’orbita di “The Goblin” risulta di ben 1190 ± 70 UA, con una eccentricità di 0,945 e una inclinazione sul piano dell’Eclittica di circa 11,67°. Il semiasse maggiore è superiore sia a quello di Sedna sia a quello di 2012 VP113. La cosa più interessante è la longitudine del perielio (ossia l’angolo fra il nodo ascendente dell’orbita e il perielio) che vale 59,2° un valore compreso fra quello di Sedna (96°) e quello di 2012 VP113 (25°), quindi 2015 TC387 si va ad aggiungere al cluster di TNO remoti che, con il loro orientamento preferenziale delle longitudini del perielio, supportano la presenza di Planet X! Ossia, se nelle simulazioni numeriche si include l’orbita di Planet X così come esce fuori dall’articolo di Batygin & Brown, l’orbita di “The Goblin” resta stabile per un arco temporale paragonabile all’età del Sistema Solare, così come resta stabile quella degli altri TNO remoti. L’orbita di 2015 TG387 è stabile anche se si considerano le perturbazioni gravitazionali dei pianeti noti e resta tale includendo le maree galattiche che diventano importanti solo oltre le 1000 UA.

new_extreme_dwarf_planet-_2015_tg387_orbitslabels
Figura 6 – Le orbite del nuovo TNO remoto 2015 TG387, di 2012 VP113 e Sedna rispetto al resto del Sistema Solare. Il TNO 2015 TG387 è stato soprannominato “The Goblin” dagli scopritori, poiché la sua designazione provvisoria contiene TG e l’oggetto è stato osservato per la prima volta vicino a Halloween (Roberto Molar Candanosa and Scott Sheppard, Carnegie Institution for Science).
Argomento_perielio_semiasse maggiore_TNO
Figura 7 – Il semiasse maggiore in funzione dell’argomento del perielio per tutti gli oggetti con perielio maggiore di 40 UA. C’è un notevole clustering tra 290° e 40°, e TG387 2015 è il primo TNO estremo o IOC ad essere più vicino a 180° che a 0° con un asse semi-asse maggiore di oltre 250 UA (Sheppard et al., 2018).

Conclusioni

La reale esistenza del cluster nella distribuzione della longitudine dei perielii dei TNO remoti dovrà essere confermata da nuove survey, il più possibile distribuite uniformemente lungo l’Eclittica in modo da non avere bias osservativi importanti. Visto che si tratta di oggetti molto distanti dal Sole, è chiaro che le scoperte saranno più probabili quanto più questi TNO remoti saranno in prossimità del loro perielio. Per ora la scoperta di “The Goblin” aggiunge un tassello non in contrasto con la reale esistenza di Planet X.

Per concludere, nella ricerca di ulteriori pianeti in orbita attorno al Sole non va dimenticato che un’analisi fatta nel 2014 da Luhman, usando le osservazioni fatte nel medio infrarosso con il telescopio spaziale WISE, ha escluso la possibilità di un pianeta delle dimensioni di Saturno fino a 10.000 UA e un oggetto di dimensioni pari o superiore a Giove entro 26.000 UA, vedi: A search for a distant companion to the Sun with the wide-field infrared survey explorer.

 

Un pensiero su ““The Goblin”, una nuova sonda per la caccia a Planet X

Lascia un commento